Descrizione
Quarta
Forse non tutti sanno che Rossini ebbe due vite: fu dominatore incontrastato del panorama lirico internazionale fino all’età di 37 anni; ritiratosi dalla scena pubblica, rimase fino alla morte un punto di riferimento del mondo teatrale. O ancora, attraverso i secoli: fu musicista di successo in vita, forse come nessun altro; ritornò in voga nel Novecento, con la Rossini Renaissance di cui ancora oggi godiamo i frutti. Da questa duplice esistenza muove il saggio di Giorgio Appolonia, seguendo la trama delle prime interpretazioni rossiniane e l’ordito delle attuali. Uno studio sui generis, capace di accattivare il semplice curioso, di rispondere ai molti interrogativi del professionista, di fornire allo studioso dati indispensabili.
Citazione
«Ora comprendo bene perché la musica del Rossini è vituperata in Germania e specialmente a Berlino; egli è che essa è adatta per ugole italiane, come i velluti e le sete son fatti per le donne eleganti e il paté di Strasburgo per i buongustai. Questa musica vuol essere cantata come la cantano gli italiani, e allora nessun’altra la supera». Parola di Georg Wilhelm Friedrich Hegel.
Immagine di copertina
François-Gabriel Lépaulle, Henri-Bernard Dabadie dans Guillaume Tell, 1831
Indice
Prefazione: Pesaro per Rossini, Rossini per Pesaro (Matteo Ricci)
Introduzione: Una voce m’ha colpito (Piero Mioli)
PRIMI INTERPRETI: Luigi Raffanelli, Nicola De Grecis, Paolo Rosich, Filippo Galli, Antonio Parlamagni, Luigi Pacini, Luigi Zamboni, Michele Benedetti, Giuseppe De Begnis, Carlo Zucchelli, Nicolas-Prosper Levasseur, Orazio Cartagenova, Henri-Bernard Dabadie
NUOVE VOCI: Nicola Alaimo (Italia), Simone Alaimo (Italia), Simone Alberghini (Italia), Paolo Bordogna (Italia), Giorgio Caoduro (Italia), Daniele Caputo (Italia), Domenico Colaianni (Italia), Roberto Coviello (Italia), Enzo Dara (Italia), Roberto De Candia (Italia), Nahuel Di Pierro (Argentina), Alex Esposito (Italia), Davide Fersini (Italia), Romano Franceschetto (Italia), Ferruccio Furlanetto (Italia), Giovanni Furlanetto (Italia), Carlo Lepore (Italia), Davide Luciano (Italia), Gianluca Margheri (Italia), Marko Mimica (Croazia), Gezim Myshketa (Albania), Gabriele Nani (Italia), Riccardo Novaro (Italia), Mirco Palazzi (Italia), Michele Patti (Italia), Matteo Peirone (Italia), Michele Pertusi (Italia), Luca Pisaroni (Italia), Bruno Praticò (Italia), Vittorio Prato (Italia), Lorenzo Regazzo (Italia), Allan Rizzetti (Italia), Davide Rocca (Italia), Pietro Spagnoli (Italia), Bruno Taddia (Italia), Vincenzo Taormina (Italia), Francesco Toso (Italia), Cuneyt Unsal (Turchia), Marco Vinco (Italia), Riccardo Zanellato (Italia)
Qui di seguito le prime sedici pagine del saggio Il basso rossiniano, di Giorgio Appolonia:
Attualmente il nostro impegno è rivolto alla riqualificazione totale del vecchio Palazzetto dello Sport che verrà attrezzato come un modernissimo auditorium per la musica: l’Auditorium Scavolini. Sarà dotato di duemila posti e la sua ultimazione si renderà fondamentale per reintrodurre nel centro-città/centro-mare la totalità delle manifestazioni relative al rof, attualmente in parte ospitate, come citato, alla Vitrifrigo Arena.
Da ultimo mi preme ricordare che nell’anno corrente è stato finalmente inaugurato anche il Museo rossiniano: un grande investimento per noi, realizzato anche grazie alla collaborazione della Fondazione Cassa di Risparmio. La sede è situata nel piano nobile di Palazzo Montani Antaldi, una dimora patrizia fatta costruire dalla famiglia pesarese con diversi interventi tra il xvi e il xix secolo. Il Museo si inquadra come un unicum dato che non esistono al mondo altre collezioni pubbliche relative a Rossini. Ecco che il percorso Casa Rossini-Museo Rossini si configura come un appuntamento imperdibile per il visitatore, analogamente al Teatro Rossini che si rende protagonista non solo durante le recite operistiche, ma anche quando apre i propri battenti per le visite con guide che ne illustrano l’architettura e la storia. In pratica abbiamo aggiunto anno dopo anno eventi e spazi che potremmo definire ‘catalizzatori’ senza venir meno alla qualità delle proposte. È un dovere che ci sentiamo di perseguire perché Gioachino Rossini ha lasciato la sua intera eredità alla città natale: un dato storico ed inappuntabile, riconosciuto dai pesaresi come grande gesto di amore da parte di uno dei più grandi artisti di sempre.
Matteo Ricci, Sindaco di Pesaro (agosto 2019)
Difficile raccontare il tenore, che si sa essere stato eroe magnanimo, giovanotto pieno di sentimento, padre conformista, nemico per la pelle, seduttore incallito e altro ancora; ma difficilissimo passare al basso, che nel primo Ottocento, in epoca per quanto tarda ancora belcantistica, prima dell’avvento di Verdi e Wagner, aveva più facce, molte espressioni, tanti aspetti da invadere anche il territorio tenorile (la scrittura di Fernando, nella Gazza ladra, si prestò anche alla voce di tenore, abbandonando Filippo Galli e abbordando Andrea Nozzari). Ma il fatto che il protagonista di Oberto conte di S. Bonifacio e il Pagano dei Lombardi alla prima crociata di Verdi siano ancora disposti tanto al basso quanto al baritono, dimostra quale elastica situazione si trovasse davanti Giuseppe negli anni Quaranta, e il fatto che Wagner abbia distinto Hoher Bass e Tiefer Bass per Wotan o Gunther e Fafner o Hagen qualcosa vorrà pur dire, tra basso acuto e basso profondo (se poi Wotan e il nemico Alberich sono entrambi bassi acuti questo significherà altro ancora). E Boris Christoff non cantò mai Die Walküre per intero, in quanto parte troppo acuta per lui, ma solo il sublime ed evidentemente a lui più comodo finale.
Il basso Christoff è stato un grande Mosè, ma avrebbe potuto essere un grande Faraone? Forse così, con tanta arte, ma per Rossini Faraone era un basso ‘cantante’, cioè chiaro, belcantistico, adorno, melodioso, mentre Mosè era il basso autentico, scuro, declamatorio, sillabico, vero profeta buono di fronte a un semplice sovrano cattivo. In tal senso Mosè collegava il Sarastro di Mozart al Fiesco e al Guardiano di Verdi, magari mediante l’Oroveso di Bellini e il Faliero di Donizetti, e in Rossini era quasi una rarità. Prima indispettito, poi sorpreso e infine ammirato, Stendhal ebbe l’impressione che Michele Benedetti, il primo Mosè egizio nel 1818, fosse addirittura il Mosè di Michelangelo!
Perché il più normale basso serio di Rossini è l’altro, quello del tipo appunto cantante, adattissimo al Conte Asdrubale (La pietra del paragone), al Duca d’Ordow (Torvaldo e Dorliska), a Maometto II, ad Assur (Semiramide), anche a paralleli personaggi comici come Mustafà (L’italiana in Algeri) e Selim (Il turco in Italia) oppure semiseri come il Fernando della Gazza ladra e il Califfo di Adina: gran coloratura, cantabilità e tessitura medio alta. Vi brillarono Filippo Galli e il suo successore Luigi Lablache, duettando e litigando con i bassi comici, bassi buffi, buffi senz’altro. Ed erano, tutti costoro, bassi ‘intelligenti’, sebbene non sempre, e bassi sciocchi, imbalorditi, sempre sopra le righe: per esempio Selim-Don Geronio e Dandini-Don Magnifico nella Cenerentola, dopo il Conte Robinson-Don Geronimo nel Matrimonio segreto di Cimarosa e prima di Malatesta-Don Pasquale nel Don Pasquale di Donizetti.
Quale, la scrittura del buffo? Quella di Germano (La scala di seta), del Signor Bruschino, di Taddeo, di alcuni ‘Don’ come Bartolo, Profondo, appunto Geronio e Magnifico: poca coloratura, niente melodia, sillabato sempre più fitto (stessa nota tante volte), estensione medio acuta (quasi da tenore senza acuti), comicità e attorialità squinternata e strampalata, sui mille esempi di Paisiello e fino al Dulcamara di Donizetti (e un po’ oltre), con gradita frequentazione del napoletano. Vedansi, all’uopo, il Don Pomponio della Gazzetta e l’Isidoro di Matilde di Shabran, che in prima o seconda versione la lingua di Partenope dovevano saperla.
Luigi Zamboni cantava spesso parti del genere, e nella vicenda del romano Barbiere di Siviglia fu il primo Figaro. Figaro, non Bartolo come si crederebbe: perché il factotum della città era, sarebbe, è un basso comico, e la promozione a baritono vale come la promozione di Rosina da contralto a soprano leggero. Quando, nel pieno e tardo Ottocento, per colpa di Verdi i buffi cominciarono a sparire e per merito dello stesso nacquero i baritoni, per mantenere in vita quel capolavoro non ci fu altro espediente che quello di passarne il protagonista a Conte di Luna, Rigoletto e Amonasro (e quale contralto avvezzo a Ulrica o alla Cieca della Gioconda poteva permettersi tutta l’agilità di Rosina?). Ma il nobile baritono, pari merito di Verdi (titolari come Nabucco, Macbeth, Boccanegra, anche Falstaff) e di Wagner (Telramund, Wolfram, Kurwenal, Amfortas) non poteva esser sorto dalla plebe del buffo. E difatti derivava in buona parte dal basso cantante di Rossini e in una certa parte dal tenore ‘serio’ di Rossini stesso, visto che il tenore romantico non squillava più come Arnoldo né più scuriva come Agorante di Ricciardo e Zoraide, Otello e Rinaldo di Armida.
Dunque il dottor Appolonia ha avuto il suo bel daffare, a scovare il passato e auscultare il presente tenendo il filo per due secoli da Luigi Raffanelli e Henri-Bernard Dabadie a Enzo Dara e Nicolai Ghiaurov (per evitare squilibri, queste righe prefatorie si circoscrivono a nomi usciti dalla vita ed entrati nel paradiso dell’arte). Avrà letto e creduto, riletto e inteso diversamente, registrato la frase di un bravo Tobia o Gaudenzio e corretto il tiro mediante un’altra frase, di qualche Alidoro, Basilio, Ajo, Sidney. E avrà incontrato un artista della chiave di basso come Sesto Bruscantini, un rossiniano tuttofare che dopo tanti casi di Figaro e Dandini un bel giorno, il 3 settembre del 1980, s’è trovato a cantare il minor Batone dell’Inganno felice per farne un piccolo gigante e finire l’aria «Una voce m’ha colpito» con un soffio: e venne giù il teatro, che era il Teatro Rossini di Pesaro. A proposito: il personaggio è così poco simpatico, rispetto al caro Tarabotto, e l’aria così bella che Filippo Galli, un giorno, volle interpretare il solito personaggio di Tarabotto rubando l’aria all’impoverito Batone.
Ma nulla, nessuna difficoltà può nulla contro la passione, e Don Giorgio tirerà dritto per la sua strada fino alla chiave di violino, fino, esempio minimo, al Jemmy di Guillaume Tell. Con tutta l’amicizia di chi, come il sottoscritto, un bel giorno fu richiesto, per burla, di citare il basso rossiniano dei suoi impossibili sogni di cantore. L’Ombra di Nino, dissi vagheggiando la mia squisita Semiramide, magari col cachet di Assur.
Piero Mioli
Docente di Storia ed Estetica Musicale
[Pistoia, 21 marzo 1752 – Milano, 1821]
Fino da fanciullo sentì trasporto pel teatro e fu (cosa rara specialmente in quei tempi) secondato in questa passione dal padre, un esemplare popolano; raccomandato nella sua puerizia a un Dott. Bernardino Vitoni il quale, come diligente raccoglitore di cose patrie, è da altri scrittori nostri ricordato, poté Luigi farsi udire in alcune recite che i filodrammatici Pistoiesi davano nel pubblico teatro, ove dié veramente a conoscere le disposizioni naturali di cui era fornito per sostenere le parti che diconsi comiche. [M. G. Rospigliosi, Notizie dei maestri ed artisti di musica pistoiesi, Pistoia, Niccolai, 1878, p. 30.]
Figlio di Antonio e Domenica Fabiani, Luigi Raffanelli viene battezzato il 21 marzo 1752 in San Zeno a Pistoia. Posto sotto la guida del cantore di cappella Renai il ragazzo svela immediate disposizioni per il teatro rispetto alla musica da chiesa. Gli occhi vivaci, il naso aquilino, la figura dinoccolata, l’espressione sorniona ed infine un registro anticonvenzionale di basso che raggiunge in falsetto note piuttosto stridule ma acute lo indirizzano ai ruoli di buffo parlante, definito anche barilotto o chiatto. Si tratta del protagonista di tante farse settecentesche nelle quali i passi melodici vengono riservati al buffo cantante, detto anche nobile o ‘toscano’. Mentre quest’ultimo si identifica in soggetti dalla varia umanità, il primo si orienta a figure di signorotti decaduti, padri pedanti e protervi, servi truffaldini, vecchi pazzi per amore.
Dopo un laborioso apprendistato nell’officina napoletana del Teatro dei Fiorentini, il debutto avviene sulle scene del San Sebastiano di Livorno il 26 dicembre 1778 con due atti unici di Giuseppe Gazzaniga: La vendemmia (Conte Zeffiro) e La vera costanza (Villotto). Di buon livello la compagnia di canto capitanata dal tenore bergamasco Giuseppe Viganoni.
Prima del 1782 Raffanelli si afferma a Vienna, stimato anche da Metastasio. Lo ricorda lui stesso il 31 ottobre 1812 alla proprietaria del “Corriere delle Dame”, Carolina Lattanzi: «Chiudo questa lettera esternandovi il mio dolore d’esser stato in Vienna a cantare per due anni in quel teatro imperiale, in un’epoca in cui più non viveva quel sommo poeta drammatico; altrimenti lo avrei ringraziato della buona opinione che aveva concepita di me per relazioni altrui, mentre nei miei giovanili anni, imitatore della natura, incominciava a calcare le patrie scene».
Nell’autunno del 1783 al Teatro San Samuele di Venezia prende parte alla prima esecuzione assoluta dello Sposo di tre e marito di nessuna di Cherubini: interpreta Don Pistacchio barone di Lagosecco che intrallazza con tre donne di diversa estrazione sociale e tutte sentimentalmente impegnate, cosicché alla fine rimane a bocca asciutta.
Dopo varie presenze a Napoli, Roma, Parma, Padova, nel 1784 viene scritturato alla Scala di Milano per la stagione estiva tradizionalmente destinata all’opera comica: accanto alla moglie Giulia Moroni è Cecchino nelle Gelosie villane di Sarti. In ottobre è la volta dei Due supposti conti ossia Lo sposo senza moglie di Cimarosa.
È ancora da segnalare la sua presenza come primo buffo caricato al Teatro Valle di Roma nel biennio 1787/1788, epoca in cui militano sulle medesime scene Carlo Rovedino e Carlo Angrisani, artisti chiamati all’esportazione del belcanto anche nel Regno Unito e in America. Accanto a loro i ruoli femminili sono incarnati da castrati per il divieto alle donne di mostrarsi in palcoscenico negli Stati della Chiesa. Il repertorio include opere quali Gli equivoci nati da somiglianza di Guglielmi, Le pazzie de’ gelosi di Anfossi, Li matrimoni per sorpresa di Platone: in quest’ultima Raffanelli interpreta senza mezzi termini il ruolo di Pirlone.
Consigliatasi con il fratello del proprio parrucchiere, Léonard-Alexis Antier, Maria Antonietta affida la direzione del Teatro Italiano al violinista Giovanni Battista Viotti e ne pone il patrocinio sotto l’egida di Monsieur, ovvero suo cognato Louis Stanislas Xavier comte de Provence.
Il cosiddetto Théâtre de Monsieur, nella prima sede nella Salle des Machines delle Tuileries, viene inaugurato tra sfarzo e mondanità la sera del 26 gennaio 1789 con Le vicende amorose di Giacomo Tritto. Nella compagnia di canto radunata da Viotti il Raffanelli riveste l’impiego di primo buffo ‘caricato’ e colleziona una serie di affermazioni personali culminanti nei capolavori di Paisiello, come Re Teodoro e Il barbiere di Siviglia, e di Cimarosa, come L’impresario in angustie.
Col sopraggiunto Regime del Terrore la compagnia viene sciolta e gli artisti, timorosi degli sviluppi, preferiscono abbandonare la Francia. In settembre, durante una stasi delle turbolenze sociali e politiche, Raffanelli e compagni vengono richiamati all’ordine per riprendere il corso delle recite a cominciare dalle Nozze di Dorina di Sarti e La molinara di Paisiello.
Raffanelli si rende protagonista di pittoresche schermaglie anche fuori scena soprattutto per la rivalità con Stefano Mandini al quale un bel giorno recapita un cartello: «Signor cantante Mandini, ella m’ha offeso ingiustamente ed io esigo da lei una soddisfazione immediata. La sfido dunque a duello, e l’attendo domattina alle sette, al cancello del Bois de Boulogne. E lascio a vossignoria la scelta delle armi, giacché io sono pronto a battermi alla spada, alla sciabola, alla pistola ed al cannone!»
Poi il tutto si conclude con un’ abbuffata di maccheroni. Nel frattempo dalla residenza di Versailles, covo di fermenti reazionari, Luigi xvi e famiglia sono ricondotti alle Tuileries. Va da sé che il prosieguo degli spettacoli trovi alloggio altrove: dapprima nella polverosa Salle des Varietés alla Foire Saint Germain, poi nella Salle di rue Feydeau. Così, all’ombra della ghigliottina, in funzione ufficiale dal 25 aprile 1792, Raffanelli si esibisce fino a 1793 inoltrato, dopodiché rientra in Italia non senza vivere una breve stagione viennese.
Ma è Napoli, città degli esordi, la piazza dove l’interpretazione di Geronimo nel cimarosiano Matrimonio segreto desta entusiasmo. Nel libretto di Giovanni Bertati i giovani Paolino e Carolina sono marito e moglie. Attorno a loro si agitano figure della tipica comicità settecentesca: Geronimo, padre di Carolina, avaro mercante e principale di Paolino, il conte Robinson, facoltoso pretendente di Elisetta, sorella dispettosa di Carolina, zia Fidalma, ricca vedova incapricciata di Paolino.
Cimarosa si rivela il compositore al quale Raffanelli lega i tratti più significativi della carriera e, quando il fecondo compositore di Aversa si spegne cinquantenne a Venezia l’11 gennaio 1801, avrà l’onore di presenziare alle solenni esequie in San Michele Arcangelo nel sestiere di San Marco.
Negli anni a venire la carriera del buffo si àncora ad alcune postazioni fisse: Parigi, dove torna all’inizio del 1801 e nel Matrimonio segreto costringe a «versare lacrime di gioia e commozione a tutta l’assemblea». Segue Milano, dove si esibisce nell’Autunno del 1804, ed infine Venezia agendo sia sulle scene principali della Fenice che su quelle modeste del San Moisè.
E proprio qui sul finire del 1810 si imbatte nel diciottenne Gioachino Rossini che attende alla stesura del primo cimento teatrale, La cambiale di matrimonio. Il narratore Fraccaroli sottolinea i forti dissapori fra l’imberbe maestrino e Raffanelli «affamato più di spaghetti che di gloria».
La trama approntata da Gaetano Rossi prevede il facoltoso mercante Tobia Mill – il Raffanelli – alle prese con la figlia Fannì, promessa ad un corrispondente canadese, ma innamorata di Edoardo Milfort. Giunto dall’altro continente per concludere l’atto nuziale, Mr. Slook rimarrà beffato.
Mill si presenta nella sezione centrale dell’Introduzione in una cavatina bipartita «Chi mai trova il dritto, il fondo/ a cotesto mappamondo?»: tra latidudine e longitudine, terzieri e calamite sta scrutando un arnese che mal conosce per focalizzare il paese di provenienza dello straniero che, mediante una cambiale, ha acquistato Fannì. Poco dopo Slook arriva con il suo corredo di ruvide maniere. Lo scontro tra le personalità dei due è riflesso nelle opposte vocalità del buffo cantante (Slook) e parlante (Mill) in tre sezioni del duetto, tutte in Allegro: «Dite presto dove sta questa gran difficoltà?», «Questo è un procedere da americano», poi «Ecco il guanto: v’aspetto fra un’ora».
Mill è quindi chiamato ad avviare l’ampio finale della farsa con una scena comica in cui mima l’imminente duello con Slook che poi non avrà luogo. Dal recitativo «Oh, qui c’è sotto un qualche grande imbroglio» con cui si presenta, passa a un’aria piuttosto acuta in tono tribunizio «Porterò così il cappello», che confluisce alla ricomparsa del canadese in una esilarante chiusa a due: «Vedrete i torti miei com’io so vendicar», avviandosi con la pipa e non con la pistola in mano.
Dopo La cambiale di matrimonio l’8 gennaio 1812 sulle medesime scene del San Moisè Raffanelli prende parte anche all’atto unico dell’Inganno felice, un’ulteriore creazione rossiniana che, per l’intreccio della vicenda volto a toni sinistri, evade la definizione di farsa.
Questa volta è Tarabotto, un generoso minatore che accoglie Isabella, ripudiata dal Duca Bertrando perché ritenuta infedele. Il sicario Batone l’ha risparmiata e l’innocente duchessa è approdata alla miniera dove Tarabotto la presenta come nipote e alla fine la riconsegna tra le braccia del ravveduto consorte.
Sebbene goffo, Tarabotto è un personaggio d’animo nobile e la musica lo sottolinea svincolandone il canto dalle maniere dei buffi di tradizione: è il ruolo che più d’altri mostra la sensibilità di Raffanelli e degli interpreti che di seguito se ne sono appropriati. Primo fra tutti Filippo Galli che, creatore di Batone, rapidamente se ne impossessa nel prosieguo della carriera.
Primo punto focale del personaggio è l’introduzione agitata subito dopo la Sinfonia, quando apprende che il Duca Bertrando si avvicina. Dopo l’assolo di Isabella ha luogo il duetto «Agitata… mi confondo» fra la stessa e Tarabotto nel quale avviene l’agnizione. Appresa la verità le porge deferente omaggio quindi, animato da buon senso popolare, si attiva alla ricerca di una pronta soluzione.
Pagine altrettanto notevoli per arguzia e raffinatezza alle quali Tarabotto prende parte sono il terzetto «Quel sembiante, quello sguardo», gestito con Isabella e il Duca, nonché il duetto «Va taluno mormorando» con Batone.
Il vecchio Raffanelli andava sovente a trovare il maestro, il quale ripetevagli sempre la stessa storia, e pregava il precitato amico artista a suggerirgli delle melodie, onde poter principiare e condurre a termine il lavoro. Il Raffanelli, che pur voleva darsi l’aria di compositore, acconsentì, ed in tal modo cantava i pensieri che la fantasia gli dettava, ed il Rossini acclamando il novello Orfeo, com’egli il chiamava, scriveva, e così venne alla luce quell’accozzo mostruoso che si chiama Bruschino.
La trama dell’opera può definirsi sconclusionata: Florville ama Sofia, pupilla di Gaudenzio che l’ha destinata in sposa al figlio scialacquone, da nessuno mai visto, di tal Signor Bruschino. Florville gli si sostituisce per impalmare Sofia. Sopraggiunge Bruschino padre e Florville continuando la sua commedia gli chiede perdono. Il vecchio scoprirà l’imbroglio ma, appreso che Florville è figlio di un acerrimo nemico di Gaudenzio, si vendica del tiro subìto e ne benedice l’unione con Sofia. Colpo di scena: ai rintocchi di una marcia funebre sbuca Bruschino figlio. La sorpresa di Gaudenzio diventa rabbia quando apprende di aver concesso Sofia ai nemici ma il dado è tratto e non resta che rassegnarsi.
Così il “Giornale Dipartimentale dell’Adriatico” del 30 gennaio 1813: «Un concorso d’ingegnosi ritrovati, e di fortuiti eventi, rende invero giocosissimi parecchi punti di scena; e la rabbia d’un padre cui si vuol dare un figlio per forza, potuto avrebbe far scrosciar dalle risa, massime coll’esecuzione dell’inimitabile Raffanelli, se tutte le molle servito avessero all’uopo».
È ancora Pacini a fornirci esilaranti dettagli sullo svolgimento della serata:
Alla prima rappresentazione il Pesarese, sapendo bene qual sorte gli spettava, volle per atto di bizzarria provvedersi di due piccoli Pulcinellini, al di sotto dei quali vi era un tondo di piombo che li manteneva in bilico, e che pose andando al cembalo dai due lati del leggio. L’Opera principiò: e ad una sinfonia stramba, nella quale immaginò che tutti gli strumenti a corda dovessero percuotere con gli archi i paralumi dell’orchestra (volendo con ciò imitare il segno che suol dare il primo violino prima d’incominciare lo spettacolo), seguiva l’introduzione, e di mano in mano gli altri pezzi. Il silenzio fu conservato dal pubblico alla sinfonia, ed anzi si rise della novità; ma in seguito il crescendo dei fischi fu simile al più fragoroso crescendo immaginato dallo stesso celebre Autore. Il Rossini, ogni volta che l’udienza disapprovava, percuoteva leggermente i due piccoli Pulcinelli, i quali, fatta un’umilissima riverenza, tornavano nella loro posizione. L’indignazione del pubblico giunse al colmo: ma l’illustre Maestro, da vero stoico, sopportava in pace l’oltraggio.
In realtà nella farsa non mancano spunti di rilievo come l’aria di Sofia «Ah! Donate il caro sposo» concertata con il corno inglese, il terzetto «Per un figlio già pentito» tra Bruschino padre, Gaudenzio e Florville, e l’aria in realtà buffissima del protagonista «Ho la testa, o è andata via?» che assume fin dall’inizio la forma di un insieme al quale prendono parte altri personaggi. Nel finale, il breve assolo «Dei tiranni, i casi miei», Bruschino ‘fa il verso’ agli eroi dell’opera seria. A riguardo del protagonista il critico Azevedo associa l’usura vocale dell’interprete con gli intenti del compositore: «Per la voce d’anitra di Raffanelli, il prodigioso mistificatore aveva scritto le cantilene più eleganti, più delicate, più squisite, come se avesse ad esecutori castrati quali Pacchiarotti o Crescentini. E allo scopo di porre nel più alto rilievo le qualità vocali del detto Raffanelli, ebbe la cura garbata di non farle accompagnare che dai pizzicati del quartetto».
La situazione comica scaturisce proprio dallo stratagemma suggerito se non preteso dal sessantenne buffo che nel gennaio del 1814 si presenta ancora sulle scene del Teatro Re di Milano. Vi interpreta Il sarto declamatore di Ferdinando Orlandi al quale, secondo le consuete abitudini, chiede varianti specifiche sulle proprie attuali condizioni vocali. A proposito della Nemica degli uomini di Carlo Melara si legge sul “Corriere delle Dame” dell’8 gennaio: «Il papà, ed altri dicono il nonno degli attori comico-buffi, nella sua florida età di… anni si mosse come movevasi 40 anni fa, e cantò come cantava nell’età matura. Tutta Italia conosce questo modello, come comico, e quanto professore, come cantante. Possa egli vivere tanti anni nel secolo presente, per quanti ne visse nel secolo passato».
Nel 1815 si registrano le sua ultime presenze teatrali alla ribalta del San Benedetto di Venezia.
Scelta Milano a dimora, si spegne nel 1821 lasciando il ricordo imperituro di un interprete di riferimento nel repertorio comico.
- 1810.03.11 – Venezia-San Moisè – La cambiale di matrimonio* – Tobia Mill
- 1812.08.01 – Venezia-San Moisè – L’inganno felice* – Tarabotto
- 1813.27.01 – Venezia-San Moisè – Il signor Bruschino* – Bruschino padre
* L’asterisco contraddistingue le prime interpretazioni assolute
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