Pubblichiamo qui di seguito l’Introduzione a Cantico dei Cantici. Canto eccelso, di Elisabetta D’Ambrosio & Sergio Gandini:
Forse nessun altro testo più di questo esige dal suo lettore quel movimento costante, quella dialettica incessante vicino/lontano che Gadamer indica come uno dei principi di fondo dell’ermeneutica.
Continuiamo a leggere testi e commenti sul Cantico: sono in tanti ad averlo letto e commentato, si potrebbe sostenere che è uno dei libri più letti di sempre, e infine ciascuno si sente autorizzato a proiettare sul Cantico qualcosa di suo.
Anche noi?
Certamente. Ma noi cerchiamo di leggerlo alla luce della nostra esperienza, non siamo alla ricerca di alcuna teoria esegetica particolare, di alcuna posizione concettuale originale.
Restiamo nudi, di fronte al Cantico.
Il Cantico è, prima di ogni altra cosa, un canto a due e amare è cantare in due.
Occorre imparare quest’arte: il creato intero ama e canta, la Terra ha una voce, si pensi al suono Om per la cultura indiana, ma anche al libro della Sapienza; la tradizione biblica è colma di canti, in ogni cultura il canto dà voce alla vibrazione del cuore in tutti i possibili registri.
Nel Cantico l’uomo e la donna accordano le loro voci con l’intero creato, fino a fare della loro stessa vita una lode.
Leggere il Cantico è dunque anche un invito a salmodiare, a trovare nelle pieghe della propria esistenza un vibrare intimo e ugualmente universale, quasi un accordarsi all’intera comunità umana, all’intero cosmo.
In tal senso ci sentiamo vicini all’esperienza di molti nel far risuonare in noi lo spirito e la lettera del Cantico.
Prima di iniziare a scrivere, ogni volta, sarebbe necessario chiedersi: ciò che ci apprestiamo a scrivere ha valore? Necessita di essere comunicato?
Il mondo contemporaneo è invaso da informazioni, libri, messaggi (su qualunque supporto): una maggiore sobrietà sarebbe non solo auspicabile, ma anche indispensabile alla nostra salute mentale.
Perché un libro sul Cantico?
Se scorriamo qualsiasi bibliografia specifica, restiamo impressionati dal numero di saggi e studi dedicati a questo testo. È necessario aggiungere qualcosa? Siamo certi dell’utilità di questo contributo? E a chi precisamente potrà giovare?
E, infine, quand’anche fossimo in grado di rispondere positivamente alle domande precedenti, siamo sicuri di avere la competenza per farlo?
Anche la frequentazione delle biblioteche – e delle bibliografie – può insegnare qualcosa. Personalmente ci insegna l’umiltà. Quando crediamo di avere scoperto qualcosa di nuovo e lo ritroviamo invece già espresso chiaramente in un altro autore, possiamo dispiacerci per il nostro orgoglio, oppure rallegrarci per la nostra intuizione.
Di fronte all’imponente massa di testi prodotti intorno al Cantico chiunque cadrebbe nello sconforto. Sicuramente molti di essi non sono affatto necessari – eppure sicuramente ciascuno aggiunge qualcosa – nel medesimo tempo, scrivere non significa doversi necessariamente confrontare con questa massa di dati, la necessità della scrittura procede sempre da un’intuizione fondamentale di senso.
Cerchiamo, prima di tutto, di eliminare una serie di pregiudizi. Poi spetterà al lettore intraprendere l’avventura dell’interpretazione.
Un esegeta del Ct ci ha offerto una indicazione per noi estremamente preziosa: forse sarebbe necessario ripartire dall’attenzione alla interpretazione. Infatti attualmente il termine ermeneutica sembra quasi entrato nel linguaggio comune, ma l’uso raramente corrisponde a una reale comprensione delle problematiche sottese.
Interroghiamo dunque Gadamer, uno dei padri di questa impostazione filosofica, per consentirci di fondare anche la comprensione del Ct su basi corrette: provare a scrivere è cercare di entrare in questo interminabile processo di fusione di orizzonti che solo può condurre alla Verità, senza eccessive valutazioni rispetto alla portata specifica del proprio contributo, ma soltanto con la consapevolezza di appartenere a questo processo.
In verità, si potrebbe affermare che l’ermeneutica stessa rivela radici molto lontane, quando Gregorio Magno nelle sue Homiliae in Ezechielem prophetam, tenute nel 593-94 d.C., osservava: «divina eloquia cum legente crescunt» e continua nei tempi attuali con Pelletier che afferma: «Lasceremo operare la distanza tra la domanda: “Che cosa significa il Ct?” (domanda che appartiene prima di tutto all’epoca moderna come esegesi critica) e quest’altra domanda: “Come leggere il Ct?”». Nessuno possiede la verità rispetto al Cantico.
Il Cantico è un testo, come tale per sempre consegnato a questo processo infinito di interpretazione: ogni volta che qualcuno legge il Cantico, al pari di qualunque altro testo, se veramente si dispone a leggerlo e a lasciarsene interrogare deve a priori rinunciare alla pretesa di poter pervenire a una spiegazione esaustiva di esso.
Ritorniamo alla domanda iniziale, che ora speriamo sia stata almeno parzialmente chiarita e che ci sia possibile riformulare con maggiore legittimità: da quale punto di vista interroghiamo il Cantico?
Scorrendo questa lunga bibliografia non ci siamo ancora imbattuti, ma potrebbe trattarsi solo di una nostra mancanza, in un commento congiunto operato a due voci, almeno non del tipo preciso che noi cerchiamo di proporre: di recente sono stati pubblicati libri che sembrano muoversi in questa direzione esperienziale, ma restano sempre in una prospettiva di catechesi riferita alla spiritualità coniugale.
Storicamente la Chiesa greca e quella latina collocano il Cantico dei cantici tra i libri sapienziali. Nei manoscritti, nei Padri della Chiesa e nei documenti ecclesiastici, esso viene regolarmente citato dopo il Qohelet, e spesso prima della Sapienza. Tale ordine è stato mantenuto dalla Vulgata e consacrato dal Concilio di Trento.
Eppure le diffidenze verso il Cantico sono di antica data, risalgono già agli Ebrei che nel i secolo cominciarono a dubitare del suo inserimento nel canone ebraico: un libro che in apparenza non parla né di JHWH, né della Legge, né dei Profeti, né delle grandi memorie della Storia della Salvezza, perché dovrebbe essere considerato divino?
In realtà gli Ebrei interpretarono il Cantico (e ancora oggi questa è l’interpretazione legittimata dalla tradizione) in senso allegorico, come esprimente l’amore di JHWH per la nazione eletta, e della sua unione con essa in mistiche nozze. Gli scrittori cristiani della Patristica, a partire da Origene, autore del primo grande commento, recepirono senza discussioni l’interpretazione allegorica degli Ebrei.
Vale la pena di sottolineare che, appena recepito in ambito cristiano, subito il Ct è stato letto in chiave allegorica e simbolica nel medesimo tempo; così, anche se noi cercheremo prima di tutto di raccogliere e sintetizzare approssimativamente tutte le tipologie interpretative raccogliendole in gruppi, in verità, nessun interprete riesce poi a mantenersi effettivamente dentro le coordinate in cui vorremmo classificarlo, ma si conserva libero di spaziare e di contaminare i diversi orientamenti.
Schematicamente possiamo individuare queste tendenze ermeneutiche:
- Allegorica
- Apologetica nuziale
- Razionalistica-Letterale
- Simbolica
Dunque, l’interpretazione allegorica è la prima a manifestarsi già in ambito ebraico, e viene ripresa poi in ambito cristiano, in cui però gli elementi allegorici già si mescolano con venature simboliche. Eppure già nel V secolo d.C. appare l’interpretazione radicale di Teodoro di Mopsuestia, il quale sosteneva che il Cantico non fosse altro che un canto d’amor profano: possiamo considerarla come il prototipo di ogni interpretazione razionalista.
Con l’avallo della Patristica il Ct entra nella tradizione cristiana: in essa vediamo rafforzarsi la tendenza apologetica nuziale, mentre l’istanza propriamente allegorica tende a confondersi con quella simbolica. Così la coppia Amata-Amato protagonista del Ct riceve le versioni più svariate, per esempio in Origene quella di ‘Cristo-anima’, in Agostino ‘Dio-mondo’ (ripresa poi da Lutero), fino a ‘Dio-Maria’ in Ruperto di Deutz.
Iniziano però a sorgere le prime interpretazioni dissonanti, come quella uscita nel 1547 col titolo Ricordi di monsignor Sabba da Castiglione caualier Gierosolimitano, che riprende almeno parzialmente certi spunti di Teodoro. È soltanto nel 1685 che appare il testo di J. Le Clerc, Sentiments de quelques théologiens de Hollande sur l’Histoire critique du Vieux Testament, che denuncia il travisamento spiritualista finora operato nell’interpretare il Ct e quindi riprende la tendenza razionalista.
D’altronde tracciare una netta linea di confine fra queste due interpretazioni, quella razionalistica e quella letterale, è più facile nella teoria che nella pratica ermeneutica: potremmo affermare che quella razionalistica è più decisamente polemica, e denuncia come il senso autentico del Ct, evidente a ciascuno, sia stato intenzionalmente travisato per preoccupazioni moralistiche; mentre quella letterale cerca più di insistere sulla componente mitica originaria, per cui il Ct deriverebbe da tradizioni anteriori al monoteismo ebraico rintracciabili nelle culture politeiste di aree mesopotamica ed egiziana.
Così nel 1771, Jacobi riprende l’interpretazione letterale degli amori bucolici, in una versione rinnovata: la fanciulla protagonista, fidanzata a un pastore, sarebbe stata rapita di sorpresa per l’harem di Salomone, che però non sarebbe riuscito nei suoi intenti e sarebbe stato alla fine costretto a lasciarla libera. Tale interpretazione conoscerà nell’Ottocento una notevole fortuna, e Renan la diffonderà in Francia.
Nel 1898 questa interpretazione arriva a imporsi soprattutto grazie a Budde, che partendo dalle osservazioni di Wetzstein, console prussiano a Damasco, il quale ha studiato sul posto la festa nuziale dello Hauran, asserisce che il libro biblico è soltanto una raccolta di canti popolari, eseguiti durante le giornate in cui si celebravano le nozze, e che solo in virtù dell’interpretazione allegorica una raccolta così profana poté essere ammesso nel Canone.
Essa, nel secolo scorso, è stata esplorata in differenti varianti da molti studiosi, soprattutto grazie al ricorso alle testimonianze offerte dai ritrovamenti archeologici. Un testo cuneiforme, interpretato come un inno a Tammuz, suggerì a Meek (1922) e a Wittekindt (1925), che il Cantico potrebbe essere un rituale, utilizzato in Palestina in occasione di feste licenziose che venivano celebrate in onore del dio della vegetazione.
Dal punto di vista strettamente filologico il legame più accertabile rimane quello tra il Ct e i poemi d’amore egiziani, risalenti ai secoli xiv e xiii a.C. Ci troviamo, in questo caso, in un contesto geografico e culturale in cui i rapporti possono essere documentati con maggiore verosimiglianza. Colpisce soprattutto, a una prima lettura, la consuetudine in uso tra i due amanti di chiamarsi con i nomi di fratello e sorella.
Situazioni simili alle scene presenti nel Ct però si possono rintracciare anche in culture di aree geografiche remote. Nel raccolta cinese del Libro delle Odi, che raccoglie canzoni popolari risalenti a un periodo compreso fra il 1700 e 600 a.C., si trova la Preghiera a Tchong in cui sono presenti i temi della donna paragonata a un giardino impenetrabile e a una coltura, nonché quello dell’ostilità dei fratelli.
Nella cultura classica indiana esiste la saga della Govinda-Gita, alla quale dedicheremo un approfondimento specifico nelle tematiche.
Anche le ricerche antropologiche potrebbero contribuire a confermare tali ipotesi interpretative: per esempio i canti d’amore attualmente in uso tra gli Arabi della Palestina si riferiscono agli amici (come in Ct 5, 1), traggono le loro immagini dal contesto geografico e descrivono la bellezza femminile, soprattutto nella rappresentazione classica chiamata wasf.
Ma che valutazione dare a queste consonanze?
Molti ritengono che queste analogie non siano artificiose e che esista un legame di derivazione reale tra tali composizioni e le usanze a cui si dice che esse siano connesse, in modo da dimostrare una effettiva continuità con le antiche tradizioni provenienti dall’ambiente che ha visto nascere il Cantico. Altri interpreti sono più cauti, non nascondono che queste analogie potrebbero essere spiegate in modo più semplice, ammettendo la persistenza di alcuni modelli letterari e ideali comuni all’universale esperienza dell’amore umano, quasi radicati in essa e rintracciabili in qualunque cultura, in pressoché tutte le aree geografiche. Forse la posizione più equilibrata è quella di riconoscere che tali affinità esistono, sono iscritte nell’animo umano piuttosto che in contatti sicuramente documentabili avvenuti tra culture differenti, e che infine ogni interprete del Ct può senza eccessiva difficoltà ricostruire un retroterra di riferimenti e rintracciare ascendenze in base alla sua sensibilità di lettore.
In conclusione, vogliamo ribadire che tutti questi approcci in sé sono pienamente legittimi, forse l’impostazione più feconda è quella di non rinchiudersi a priori in nessuno di essi, ma di cercare sempre di lasciarli dialogare e di apprendere da ciascuno tutto quello che, eventualmente, può offrire per arricchire la nostra comprensione del Ct, nella prospettiva polisemica che noi andremo presto a precisare. Dopo questa iniziale presentazione, non cercheremo preventivamente di svolgere un’analisi critica di ciascuno di essi, enucleando le possibili ragioni a fondamento delle differenti tesi: ci interessa semmai la dialettica che è possibile instaurare tra queste differenti interpretazioni nel lavoro di analisi del Ct e che emergerà naturalmente nel corso del nostro commento.
Vorremmo riprendere dal dubbio radicale che ci ha sempre colto davanti alle tante interpretazioni date nel corso dei secoli: perché?
In definitiva, tutte le tradizioni religiose hanno cercato di impadronirsi del Cantico, tradendone il senso profondo: sposa e sposo, leggendo il Cantico in una prospettiva di giustificazione dell’amore coniugale – oppure sublimandone il significato: JHWH e Israele, Cristo e la Chiesa come sposa di Cristo, Dio e la Sapienza.
Ogni interpretazione pecca in qualcosa: quella cristiana tradizionale nasconde un rifiuto del corpo che affonda le radici nel dualismo paolino; quella ebraica pare troppo legata al contesto di appartenenza; quella naturalistica sembra perdere il profumo caratteristico del Cantico; infine quella mista, che pure potrebbe accontentare un po’ tutti, ripropone in qualche modo un dualismo, tra alto e basso, spirito e carne.
Perché questo dovrebbe essere il primo pensiero, quello fondamentale?
La tendenza dualistica, radice di ogni peccato e fraintendimento ermeneutico, non è forse, primariamente, negli occhi di chi guarda?
La nostra analisi di continuo intreccia tre livelli di discorso: traduzione del canto, commento motivato alla traduzione, riflessione tematica su alcune costanti interpretative. Un’attenta considerazione del dualismo opposto alla dualità, per esempio, rappresenta la prima tematica svolta dopo il commento al primo canto. Abbiamo preferito lasciare anche nel nostro libro che il commento puntuale ed esegetico fosse libero di intrecciarsi con le tematiche suggerite dal nostro approccio, piuttosto che procedere a una rigida separazione, proprio per evidenziare il carattere provvisorio di ogni autentica lettura del Cantico. Esiste certo, prima di tutto per noi, un legame tra il canto e la tematica affrontata, ma starà al lettore intraprendere questo percorso di lettura.
È con questa intuizione della dualità che desideriamo condurre il lettore nella nostra proposta di ri-leggere insieme il Cantico: perché?
Se accettiamo la premessa ermeneutica prima accennata, ogni approccio al Cantico è il frutto già di una tradizione esegetica ormai secolare che come qualsiasi altra tradizione non può certo essere messa in dubbio, ma deve, proprio adesso, in questo tempo storico, essere relativizzata e quindi, semmai, ricompresa a un maggiore livello di consapevolezza ermeneutica.
Dio creò l’uomo a sua immagine; A immagine di Dio lo creò; Maschio e femmina li creò.
Così inizia il testo biblico. Lasciamoci interrogare da esso.
Per superare il dualismo che sembra soggiacere e nascondersi in ogni tentativo interpretativo passato e arrivare alla realtà stessa del Cantico, occorre affermare il concetto di dualità: non è solo una storia d’amore, ma un dialogo a due voci, maschile e femminile.
Sposo e Sposa; in questo già prevale l’ottica del matrimonio; Amante e Amato: questo si presta a una trasposizione mistica, in cui uno dei termini è destinato a una posizione subalterna; Uomo e Donna, semplicemente.
Un dialogo d’amore tra un uomo e una donna, in cui carne e spirito, dimensione orizzontale e verticale sono finalmente in unità: il senso letterale e quello allegorico, se vogliamo esprimerci ancora in questi termini antinomici, esistono sempre ma rivelano un profumo diverso.
E infine, ci piacerebbe invertire la relazione tradizionale, radicalmente: donna e uomo.
Forse il Cantico ha ancora bisogno, più che mai, di questo: di essere letto e commentato insieme da una donna e da un uomo, ciascuno con la sua specificità di genere, proprio in questa epoca che tanto insiste sulla necessità di riconoscere una reale eguaglianza (che ovviamente esiste principalmente nella dimensione del diritto, ma è ancora lontana da essere una conquista reale). Eppure, una volta ribadita l’eguaglianza radicale, occorre procedere ancora oltre e interrogarsi sulla realtà di due archetipi, maschile e femminile, e cioè non più tanto sul loro essere socialmente e culturalmente determinati, e quindi causa di sopraffazione e sfruttamento, quanto piuttosto sulla loro differenza antropologica effettiva.
Donna e uomo.
E questo già colpisce molto, che la Genesi contenga addirittura due racconti differenti della creazione: un primo racconto che pone uomo e donna esattamente sul medesimo piano, conservando la sola differenza di genere, e un secondo racconto in cui Dio stesso estrae la donna da una costola dell’uomo e che sembra legittimare invece, almeno a prima vista, e quasi sempre in tal senso è stato interpretato, l’inferiorità della donna rispetto all’uomo.
Noi preferiamo pensare che il primo racconto sia quello originario, il secondo un successivo riconoscimento del diffondersi di una mentalità patriarcale, assente invece dal Cantico.
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