«Vi era un tempo lontano in cui i nomadi si spostavano sulle lande deserte del takyr, nei territori curdi e aspri dell’antico Turkmenistan sovietico degli anni trenta. Si fatica a pensare a un tempo preciso, perché takyr, il nome delle terre argillose che davano nutrimento e patimento alle orde carovaniere, è una dimensione del tempo, dell’anima, sospesa nello spazio liscio e galleggiante della sabbia. In questo tempo, lungo e circolare, si consumano le vite delle donne coperte dai veli, vendute dai genitori al loro padrone, consumate dal vento arido, dalle carestie e dalla consunzione delle carni troppo presto esposte alla vecchiaia. Il tempo di essere adolescente e di accarezzare i granelli di sabbia, di sincronizzare la propria malinconia con quella dei cavalli e delle pecore viandanti, che si è già pronti per una solitudine eterna. Il tempo della memoria lunga era una somma di attimi fugaci , come le voci di chi passa velocemente per passare la notte e poi fugge all’alba , toglie le tende, cena con il respiro dell’animale, sugge acqua dai pozzi disseminati, sente il peso della bisaccia. La piccola Giumal, nasce così, pura come un fiore del deserto , subita esposta alla morte e ai pericoli del deserto turkmeno. Sopravvive e diviene adolescente conoscendo presto le ineluttabili leggi della sua gente: un corpo prestato al piacere altrui, la prostrazione, il duro lavoro».
Dalla recensione di Antonella Nocera, su “Bibliovorax” del 06/12/2022, di:
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