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Dostoevskij scriveva disegnando

I taccuini di Dostoevskij, un tempo scomparsi, sono un tesoro inestimabile che ci consente di gettare nuova luce sulla genesi dei suoi romanzi, spiega Serena Vitale recensendo ne “Il Sole 24 Ore” del 31/01/2017 Disegni e calligrafia di Fëdor Dostoevskij, di Konstantin Baršt.
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«L’11 novembre 1921, centenario della nascita di Dostoevskij, una commissione ufficiale (tre membri, fra cui Maksim Gor’kij) aprì la cassetta di sicurezza della Banca Statale di Pietroburgo in cui nel 1899 Anna Grigor’evna, vedova dello scrittore, aveva depositato alcuni gioielli e molti materiali d’archivio del marito; dopo il ’17, nazionalizzato come tutto quanto veniva custodito nelle banche russe, quello scrigno di zinco era passato nel Deposito statale dei beni preziosi. Conteneva i taccuini preparatori di Delitto e Castigo, L’idiota, I demòni, L’adolescente, I Fratelli Karamazov (quaderni, questi ultimi, provvidenziali: la maggior parte dei manoscritti del romanzo, ben «trentadue chili di carta scritta», erano stati rubati e restano ancora oggi al centro di una misteriosa vicenda in cui figurano il custode di una dacia, banditi caucasici, un disonesto funzionario del Dipartimento investigativo rivoluzionario, alcuni čekisti, Stefan Zweig…).
Un tesoro inestimabile, non solo dal punto di vista economico. Oltre alla preistoria delle creazioni di Dostoevskij, quando intreccio e personaggi delle sue grandiose macchine narrative erano ancora ignoti allo scrittore che, come il narratore di Evgenij Onegin, «non distingueva ancora chiaramente / attraverso il magico cristallo / il lontano futuro del libero romanzo», quei quaderni rivelavano un aspetto dell’arte di Dostoevskij conosciuto solo da pochi intimi e famigliari: i suoi disegni. Non gli schizzi, più o meno compiuti, o i ghirigori con cui gli scrittori ingannano (ingannavano) l’attesa creativa, non gli autoritratti, le silhouette di amici e di belle donne che si affollano nei manoscritti di Puškin, nei quali il rapporto di parentela tra disegni e testo è facilmente deducibile. Nei fittissimi, spesso caotici appunti di Dostoevskij l’immagine non illustra ciò che è scritto nello stesso foglio, il suo legame con la parola sfugge quasi sempre a una spiegazione logica – e del resto con la logica, lo sappiamo, lo scrittore aveva pessimi rapporti… È piuttosto un’ideografia creativa, l’espressione non verbale dello sforzo di dare un volto all’“Idea”, il diario figurativo di una nervosa e spesso febbrile quête del Disegno romanzesco. Il massimo studioso della “grafica dostoevskiana”, Konstantin Baršt, ne ha curato la pubblicazione in un libro sotto ogni riguardo prezioso: più di duecento riproduzioni stampate con impeccabile fedeltà all’originale, accompagnate da minuziosi commenti in forma di brevi saggi.
Ritratti, innanzitutto, volti di uomini, donne, bambini. Compaiono numerosi soprattutto nei taccuini di Delitto e castigo: gli scrittori prediletti da Dostoevskij (Balzac, Cervantes…), più o meno amati contemporanei russi (Belinskij, Turgenev…), personaggi storici come il Napoleone cui si ispira il giovane Raskol’nikov nell’elaborare la teoria dei pochi eletti che in nome del bene comune avrebbero il diritto di uccidere i “pidocchi” dell’umanità. Nell’avantesto del “romanzo pietroburghese” per eccellenza non poteva mancare l’immagine di Pietro I il Grande, il riformatore – ma distruttore della “Santa Rus’ ” – forse non a caso effigiato con i tratti inerti, come ottusi, della maschera mortuaria… Più d’un ritratto consente di seguire l’elaborazione dell’“assolutamente bello femminile”, la grazia pietosa e redentrice che per Dostoevskij si incarnava nell’epifania mariana della Madonna Sistina; l’immagine di Raffaello presta i lineamenti a Sonja Marmeladova, la santa prostituta, come a Dunja, la sorella di Raskol’nikov, anch’ella vittima del bisogno materiale e della depravazione altrui. Sennonché in uno dei fogli su cui compare lo schizzo di Dunja – ovale tenero e delicato in una cornice di riccioli – si riconosce un intervento più tardo. Con un deciso tratto di penna Dostoevskij ricalcò sopracciglia, occhi e bocca; il viso venne deformato da una smorfia cinica e la nuova espressione equivoca, quasi sordida, è l’ennesima conferma di una delle più straordinarie scoperte narrative del “talento crudele”: la vertiginosa contiguità tra il bello e il suo contrario, la compresenza e reversibilità degli opposti nell’animo umano. Un’altra consistente parte dei disegni è rappresentata da schizzi architettonici. In essi più che altrove si rivela la perizia dell’ex allievo della Scuola di ingegneria militare, dove Dostoevskij aveva studiato con diligenza ma senza amore, solo per compiacere il severissimo padre («come sai, non so disegnare», gli scrisse un giorno…), animandosi unicamente durante le lezioni di architettura. Per il diploma presentò un bozzetto del duomo di Colonia, lo stesso al quale, insieme al duomo di Milano, «enorme, di marmo… fantastico come un sogno», rimandano i disegni. Dell’arte gotica, scopriamo, non gli interessavano le gargouille, i grilli, le figure demoniache: a parte i ripetuti fleuron, le singole foglie (di uva, cardo, quercia) che servono anche a indicare la fine di un brano o di una sezione, quelle di Dostoevskij sono per lo più variazioni su archi, torrette e finestre. Finestre a sesto acuto, slancio verticale verso regioni luminose, espressione del divino che vince la buia materia, vittoria sulle tenebre che ancora assediano la mente dello scrittore.
La scoperta più singolare riservata dai taccuini al lettore non specialista è forse quella degli esercizi di calligrafia che con maggiore frequenza appaiono nei materiali preparatori de L’idiota e I demoni. Dostoevskij, racconta la moglie, «aveva una vera passione per i corredi di cancelleria, sceglieva con grande cura penne, punte, inchiostro e carta, per i quaderni non badava a spese, prediligendo quelli di produzione francese, dalle belle pagine di spessa carta». Aveva anche, aggiungiamo, una passione per la “bella scrittura”, e come il principe Myškin avrebbe potuto dire: «Sono un vero calligrafo». Negli intermezzi calligrafici – di dimensioni variabili, a volte occupano un angoletto della pagina, talvolta si allargano a tutto il foglio – la penna sembra finalmente calmarsi e quasi riposare mentre sperimenta l’armonia nella sua forma più accessibile, innocente. Raphael Santio d’Urbino, Caligola Vittelius Neron (sic!), Desdemona, Madazima di Vandalia, Julius Caesar, Malebranche, Venezia, Pietroburgo, Napoleone, Vitali (il cognome di un compagno di scuola) eccetera, compaiono in caratteri cirillici o latini, corsivo o stampatello, con una fantasiosa mescolanza di stili, quasi mai in rapporto diretto con il contesto, sempre curati fino al virtuosismo. Indoviniamo il gusto, il piacere fisico della scrittura “inutile” di un geniale forzato della parola, il momentaneo trionfo sul caos.

Dall’articolo di Serena Vitale per il “Sole 24 Ore” del 31/01/2017 a proposito di:

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